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I volontari del ritratto solidale

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Foto di Davide Travaglini  1 Foto di Davide Travaglini  2La luce perfetta, il taglio giusto, «la foto più bella che abbia scattato in tutta la mia vita… e non posso farla vedere a nessuno». Ma era nei patti. Un dono è un dono, e il ritratto che Cinzia Bruschini, marchigiana di Fermo, fece a quel ragazzo africano trovato in un centro di accoglienza adesso appartiene a lui, solo a lui. «A me resta molto di più, il ricordo di un incontro».
Grazie a gesti come quello di Cinzia, da qualche mese, decine di migliaia di persone nel mondo possono finalmente vedere se stesse in una fotografia più dignitosa della fototessera sul libretto della pensione o sul permesso di soggiorno. Help-Portrait è un movimento internazionale lanciato alla fine del 2009 da Jeremy Cowart, fotografo di celebrità e moda statunitense, un movimento di volontariato iconografico solidale, diciamo così. La mission: regalare un fotoritratto d’autore, di qualità professionale, a chi non potrebbe permettersene uno. Anziani soli, homeless, ragazze madri in comunità, migranti, emarginati, magari anche solo il vicino di casa. Slogan: «Le foto non si prendono, si danno».

Un’intervista alla Cnn, un sito Internet ben fatto, un po’ di tam-tam sui social network e l’idea semplice e perfino ingenua ha dilagato nella Rete, fino a coinvolgere 715 gruppi locali composti da 8300 fotografi in 42 paesi del mondo, che hanno scattato finora qualcosa come quarantamila ritratti. Per l’Italia, la community registra finora una cinquantina di volontari sparsi in sette città, con i gruppi più numerosi a Milano e Roma, altri minori a Napoli, Palermo, Bergamo, Parma. «Ma il movimento può crescere», garantisce Giuliano Bausano, fotografo e art-director, il promotore del gruppo romano, «questa volta c’è stato poco tempo per prepararsi ma l’anno prossimo saremo di più».
L’appuntamento era per il 12 dicembre 2009, giornata mondiale dell’Help Portrait, in realtà il movimento italiano si è messo in moto in ritardo, un po’ a fatica e in mezzo a qualche diffidenza. «Quando telefonavo per organizzare una seduta di posa le associazioni di volontariato mi liquidavano subito, perfino Save the Children ha cominciato ad ascoltarmi solo quando ha capito che non chiedevo soldi». Con Jana, la sua ragazza, e una troupe di una ventina di amici (altri fotografi, un paio di truccatori, semplici volonterosi) alla fine Giuliano ha deciso di tentare il tutto per tutto, e si è presentato di persona con fotocamere, luci e tutto il necessario al centro anziani di via Valdinievole, quartiere Monte Sacro. Sorpresa, incredulità, poi il ghiaccio che si scioglie e «una giornata indimenticabile» di risate, festa, abbracci, racconti. Giuliano ricorda con tenerezza la sua modella, Ornella, che davanti all’obiettivo prendeva pose un po’ troppo studiate per essere ingenue, «ed eccola che tira fuori dal cassetto i suoi ritratti da giovane, era un’attrice, aveva calcato scene importanti, ma nessuno la fotografava più da decine d’anni…».
Fotografare, nella nostra cultura, almeno fino a quando l’ubiquità dei fotofonini non avrà demolito anche questo, è attribuire valore. Ti fotografo, dunque ti trovo interessante, bello, degno di essere guardato. Il dono vero è questo, più che la consegna materiale, qualche giorno dopo, del ritratto ben stampato e incorniciato. Ecco dunque gli angeli custodi dei photo-less, dei senza-foto, marginali nella società dell’immagine come gli homeless, i senza-tetto, lo sono in quella dei consumi. Non sarà un po’ snob? Non ci sarà dietro l’idea che i veri poveri, oggi, sono quelli che non possono darsi un look, trascendersi in un’icona? «Non mi sono neppure posta questo problema», fa spallucce Cinzia, «mi è bastato vedere la gioia di quel signore polacco che si è vestito da Babbo Natale per poter finalmente mandare una bella foto ai suoi figli». I critici sono già in agguato: avere una fotografia non è certo il primo bisogno di chi vive in povertà, o dorme sotto un cartone. «Non è l’elemosina di un’immagine», reagisce energicamente Giuliano, «è l’alibi per un contatto umano, è la porta verso un sorriso, e poi è anche una speranza…». Di che genere? «Prepararsi per la foto, sistemarsi, dare il meglio di sé, vedersi finalmente belli, è come sperimentare un futuro migliore che può ancora venire».
Non mancano i rischi, in un’operazione così delicata. Dal quartier generale americano, ora istituzionalizzato in un’associazione no-profit, più volte sono giunte severe circolari, precisi richiami alle regole: niente sponsor, guai a chi fa girare soldi, le fotografie devono essere autentici doni e non reportage sociali mascherati che poi magari finiscono su un libro d’autore o venduti ai rotocalchi. «È un movimento fin troppo organizzato», pensa ad esempio Luca Sartoni, fotografo e blogger milanese, «era meglio lanciare l’idea e poi lasciare che si diffondesse spontaneamente». Per quanto riguarda lui, Luca il 12 dicembre era a Parigi e aveva con sé una Fuji a sviluppo istantaneo, «scattavo ai passanti e regalavo le foto sul momento». Sorpresa, qualche rifiuto, molti sorrisi di contraccambio. «Lo rifarò». Il prossimo Help-Portrait Day sarà il 4 dicembre 2010, ma Giuliano non lo aspetterà: «Pensiamo a organizzare sessioni ogni due mesi». Anche Cinzia ripeterà l’esperienza, «lo farò per me, senza dirlo a nessuno, neanche agli americani».


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