C’è qualcosa di innaturale nell’autoritratto fotografico; e anche di irresistibile. I miei amici curatori della mostra Io mi vedo così, visitabile da sabato 12 giugno fino al 5 settembre al Centro italiano della fotografia d’autore di Bibbiena (Arezzo) hanno pescato a colpo sicuro nel gran cesto della creatività: praticamente tutti i fotografi contattati (tutti italiani, di tre generazioni almeno) avevano un autoritratto nel cassetto; i pochi sprovvisti, ne hanno prodotto uno per l’occasione, di slancio.
Innaturale. Fascino della visione proibita, proprio così. In un autoritratto fotografico ci vediamo come non potremmo mai vederci “naturalmente”. Neanche quando ci guardiamo allo specchio (specchiante è anche l’invito della mostra), ovvero l’esperienza che dovrebbe renderci familiare l’aspetto del nostro volto, e invece ce lo restituisce invertito lateralmente, come gli altri non ci vedono. La foto ci raddrizza. La foto ci restituisce il nostro volto visto da noi, ma anche visto da un altro. Ci trasforma in un altro che ci guarda. Ci vediamo mentre ci vediamo. Vedersi vedersi, dice Paul Valéry nel titolo di un bel libro di Valerio Magrelli. Esperienza inquietante e ammaliante.
A Bibbiena dunque, decine e decine di autoritratti d’autore (divertitevi a cercare i nomi che vi aspettate: non ve li dico, ma vi dico che se vi viene in mente un nome, quasi certamente c’è; vi rivelo solo l’autore dell’unica che vi mostro: Nino Migliori) diventano una riflessione e una storia di un genere speciale, solipsistico o vanitoso, lusinghiero e impietoso: grazie anche alla rivista-catalogo che ne guida la lettura. Con intelligenza, la mostra sconfina nel regno dell’autoritratto condiviso, pubblicamente diffuso: pesca nel regno di Flickr.
Ma c’è un’altra zona ancora dell’autoritratto contemporaneo, quella più impudica ed esagerata. La zona dei social network, delle comunità cinguettanti di Facebook e simili. E qui c’è da riflettere un po’. Perché mescolando la potenza della Rete alla leggerezza dell’identità l’autoritratto diventa qualcosa di potenzialmente mostruoso. Non siamo più noi a mostrarlo, va in giro da solo, visto da chissà chi, potenzialmente milioni di persone: messo online proprio perché sia così, spudoratamente esposto. Adolescenti anomici puntano la fotocamera del cellulare sullo specchio del bagno, scialacquando il proprio Io fra spazzolini da denti e asciugamani bagnati; ragazzine inquiete recitano il manga che credono di essere davanti alla webcam, con la porta reale della loro camera ben chiusa al controllo dei genitori, e quella virtuale ben aperta al voyeurismo di tutto il pianeta.
Nell’autoritratto, l’Autore di un tempo cercava se stesso: “specchio dell’anima”, autoanalisi, interrogazione dell’Io. Nella loro marmellata mal controllata di pixel, i ragazzi Facebook offrono a invisibili scrutatori un calco di quel che non sanno di essere, di quel che non capiscono di loro stessi, sperando forse che con l’offertorio del proprio corpo al mondo qualche onniveggente ne capisca più di loro.
Sono in fondo, due ricerche di identità: ma una la cerca dentro, l’altra fuori del sé. I primi sono veramente, etimologicamente autoritratti. I secondo, come vogliamo chiamarli? Io propongo: eteroritratti.