Mi chiedo chi abbia deciso quali sono i “grandi autori” della fotografia, e ho una risposta. Lo hanno deciso alcuni, pochi, canonizzatori ufficiali, alcuni rinomati “grandi storici della fotografia” le cui narrazioni, in realtà, sono il frutto non solo di scelte personali ma anche e soprattutto di preferenze (e perché no, interessi) istituzionali. Le “storie” ormai notissime di Gernsheim o di Newhall nacquero da ben precise collezioni che i loro testi intendevano valorizzare. Dunque diventavano “grandi autori” quelli rpesenti in quelle collezioni, e rimanevano nell’ombra quelli che per qualsiasi motivo non vi figuravano. Legittimo, se solo fosse stato tutto un po’ più chiaro ed esplicito. In realtà quelle narrazioni dall’ottica e dall’ambito particolari si presentavano come “storie universali”, e tutti gli storiografi (o presunti tali) successivi non hanno fatto altro che prendere tale e quale quel “canone”, quella sequenza di cognomi, e replicarla all’infinito. Chi c’è c’è, e chi non c’è s’accontenti di essere “un minore”. Naturalmente fra i “minori” finivano in questo modo anche i fotografi di paesi decentrati e non appartenenti al triangolo Francia-Inghilterra-Usa.
Tutta questa premessa per dirvi cosa mi è venuto in mente sfogliando il catalogo della mostra che il Fotomuseo di Modena (fino al 30 maggio) dedica a un suo grande concittadino fotografo del passato, ovviamente missconosciuto, avendo avuto la sfortuna di vivere in una città di provincia di un paese di provincia. Parlo di Salvatore Andreola, pittorialista mai pentito per tutta la sua lunga e intensa vita professionale iniziata nei primi anni Venti e terminata solo poco prima della sua morte nel 1970. Eppure Andreola, come ci racconta la curatrice Chiara Dall’Olio, non era un provinciale: quando nel 1924 il Salon fotografico di Parigi celebrò la stagione del pittorialismo europeo, Andreola c’era, e il suo testo fondamentale, La psicologia nell’arte del ritratto, piacque a Lionello Venturi e a Bernard Berenson. La sua riscoperta merita attenzione, però, non perché siamo di fronte al “genio incompreso e sottovalutato” da aggiungere in tutta fretta alla litania dei grandi nomi: intensi e ingenui assieme, i suoi ritratti soffusi e “interpretativi”, dai bromoli tirati a pennello dell’epoca d’oro fino ai bromuri flou e carbonosi dell’ultimo periodo, sono onestamente meno fascinosi di quelli, forse più retorici e pomposi, dei suoi contemporanei e confratelli. Ma proprio per questo l’arte del ritratto di Andreola riesce ad essere la testimonianza più autentica del gusto medio di un’epoca, la lunga (in Italia, complice l’isolamento internazionale dovuto al fascismo, forse anche più lungo) fase di conquista dell’orgoglio creativo ed espressivo alla fotografia d’autore, di resistenza all’incipiente massificazione del mercato delle macchinette e della stampa industrializzata. Donne della media e alta borghesia, artisti, notabili locali che si rispecchiano nella fotografia perché per la loro classe la fotografia è nata, ma che non vogliono confondersi con la banalità popolana della fotografia di massa ormai incombente, e per distinguersi si accontentano dei contorni sfumati, della luce diffusa e morbida, insomma di quel velo che nobilita e fa chic. Credo proprio che valga la pena fare un salto a Modena per dare un’occhiata a questi pezzi unici, di grande sapienza artigianale e di sapiente abilità compositiva, che nessuna riproduzione, neanche quelle più che decorose del catalogo Skira, riesce a rendere.
Tra l’altro, a fianco della mostra di Andreola ne troverete un’altra che può farle da controcanto: Tre, ovvero la terza esposizione di acquisizioni di opere di fotografi contemporanei da parte della Fondazione Fotografia, nucleo di un nascente e ricco museo della fotografia contemporanea. E’ il turno, questa volta, di un piccolo gruppo di autori italiani di talento, alcuni già affermati come Paola De Pietri, Francesco Jodice, Pino Musi e Carmelo Nicosia, altri promettenti under-35 come Lorenzo Casali, Eva Frapiccini e Renato Leotta. Buona visione.