Se lei/lui non c’è quando ne avresti bisogno, quando sei in ansia, quando sei ammalata/o, e vorresti stringergli/le la mano, prendi una sua foto, quella che hai nel portafogli, tienila in mano, guardala. Farà quasi lo stesso effetto.
C’è una ricerca scientifica su qualsiasi cosa al mondo, e girando un po’ a caso sulla gran Rete ho scoperto anche questa, per quel che riesco a capire molto seria, pubblicata un anno fa su Psychological Science col titolo A Picture’s Worth, ed elaborata da un gruppo di sei ricercatori (Sarah L. Master, Naomi I. Eisenberger, Shelley E. Taylor, Bruce D. Naliboff, David Shirinyan e Matthew D. Lieberman) del dipartimento di psicologia della Ucla di Los Angeles, resoconto che dimostrerebbe, su basi sperimentali, che le fotografie dei nostri cari che ci piace avere sempre con noi non sono solo un talismano affettivo, o un tenero memento, ma possono servire come surrogati efficaci della presenza fisica di una persona cara assente.
L’esperimento parte dall’assunto, già noto e verificato, che tenere la mano del partner in un momento difficile diminuisce la percezione soggettiva del dolore. Succede la stessa cosa se al posto del partner c’è solo una sua fotografia? Per scoprirlo, i ricercatori hanno sottoposto ventotto donne-cavia a una sensazione spiacevole (calore a un braccio oltre la soglia di fastidio individuale), dividendole in sei gruppi: alcune tenevano la mano del partner, alcune la mano di uno sconosciuto, alcune un oggetto (una pallina antistress); alcune invece tenevano in mano la foto del partner, alcune la foto di uno sconosciuto, alcune la foto di un oggetto.
Bene, i risultati sembrano sosprendenti: tenere in mano una foto del partner fa quasi lo stesso effetto benefico che tenerlo realmente per mano (anche se in misura meno accentuata nel caso della foto); mentre né la presenza fisica né quella fotografica di uno sconosciuto hanno visibili effetti antidolorifici. I ricercatori ne traggono la seguente conclusione: che “il semplice ricordo della persona amata può essere sufficiente a produrre una sensazione di sostegno affettivo”.
Il semplice ricordo? Io non sono convinto che si tratti di questo. La fotografia sarebbe dunque soltanto un promemoria, un nodo al fazzoletto? Sicuramente è anche questo, ma è solo questo? Sarebbe stato interessante che i ricercatori avessero inserito anche, tra le variabili dell’esperimento, un gruppo di cavie che tenesse in mano un ritratto pittorico somigliante del partner, o un oggetto appartenente al partner: anche questi oggetti infatti sono in grado di indurre “un ricordo della persona amata”. Ma io sono convinto (assolutamente senza prove, ma qualcosa me lo dice) che avrebbero funzionato assai meno delle fotografie, e forse per nulla.
Perché una fotografia non è solo un promemoria. Una fotografia, nella nostra cultura, è un’impronta materiale della persona amata, è un suo calco, ha con lei/lui un rapporto di causa-effetto, un legame fisico. La fotografia, nella nostra cultura, porta con sé un’emanazione reale del suo referente. E’ noto che la magia per contatto è più potente della magia per somiglianza (una fattura fatta su una ciocca di capelli è più efficace di una fattura fatta su un pupazzetto), e la fotografia appartiene all’area del contatto.
Quel che abbiamo tutti o quasi tutti in tasca (adesso, nella cartella immagini nel fotocellulare….) non è un souvenir. E’ la cosa stessa. Amore mio, ti fotografo: verrai sempre via con me.