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Come falene in una scatola

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SinatramugshotLo ammettiamo o no, crediamo tutti di sapere che faccia ha un delinquente. Lombrosiani dentro, vergonandocene. E’ forse un meccanismo ergonomico che ci costringe a classificare nello schedario della memoria i volti che via via incontriamo secondo grandi categorie di genere, età, ma anche “morali”: oppure un residuo evolutivo dell’istinto che ci dovrebbe aiutare a decifrare in pochi istanti se lo sconosciuto che ci troviamo di fronte è una potenziale minaccia da cui difenderci. Come altri relitti psico-antropologici, non ci serve più, ma ne resta un fondo che funziona in modo distorto, rendendoci schiavi degli stereotipi della diffidenza.

L’era della fotografia ha agito come una potentissima conferma del meccanismo di stereotipizzazione. La quantità di volti esposti al nostro scrutinio è aumentata a dismisura: se un contadino del Settecento poteva incontrarne qualche centinaio nel corso di tutta la sua vita, un cittadino medio urbano del ventunesimo secolo ne ha scrutinati a centinaia di migliaia prima ancora di diventar vecchio. La necessità psicologica di una classificazione per generi di questo immenso accumulo di immagini memorizzate si impone anche contro la nostra dichiarata convinzione di non nutrire pregiudizi. L’archivio pensato a metà Ottocento da Alphonse-Louis Bertillon per la Prefettura di Parigi, inr ealtà fallimentare sul piano delle indagini, è virtualmente presente nella nostra mente.

A tutto questo pensavo sfogliando le pagine di Ritratti criminali di Raynal Pellicer, appena pubblicato da Mondadori (ma già esisteva un volume di argomento simile, e forse un po’ più coraggioso nella decifrazione del fenomeno: Accusare di Giacomo Papi, Isbn), antologia di centinaia di mugshot, ritratti segnaletici degli arrestati. Siano essi killer seriali, mafiosi, anarchici o star del rock beccate con qualche pasticca di troppo, i loro volti sono come perle di una stessa collana, tutte diverse e tutte simili. La fotocamera della polizia, il meccanismo fronte-profilo, gli accessori segnaletici (il cartellino col numero di matricola) sono gli elementi connotatori di un’immagine che nasce già accusatrice nella forma. Il resto lo fanno le condizioni psicologiche estremamente stressanti del momento della ripresa: pochi minuti dopo un arresto, maltrattata dagli agenti, sbattuta contro un muro, davanti a un obiettivo e a un colpo di flash, anche Madre Teresa di Calcutta somiglierebbe a Lucy Luciano. Anzi no, perché i criminali veri se la cavano meglio: la maschera da “faccia d’angelo” non cade dal loro volto, troppo forte l’ego: così i ritratti dei grandi delinquenti, dei boss della mafia e dei serial killer sono gli unici che raccontino anche la loro storia interna, la storia di quell’attimo in sala di registrazione della polizia: lo sguardo di sfida, il mezzo sorriso, l’aria strafottente fanno “vivere” cinematograficamente le loro fototessere, mentre quelle degli innocenti sono pietosamente piatte e inanimate.

In realtà, se non ci fossero le didascalie a raccontarmi le loro storie, spesso avvincenti, a ricordarmi nomi che un tempo risuonarono, e che il cinema ha spesso recuperato (Black Dahlia, Violette Nozière…), lo sfoglio di questi ritratti sarebbe alla fine noioso. Non lo è stato, epr me, anche a causa di un altro particfolare, quasi un punctum barthesiano. In molte immagini, nello scatto di profilo, si scorge dietro la nuca dell’arrestato il poggiatesta che serviva a tenergliela ferma per la ripresa. Un ferro sottile che sembra trafiggere il cranio del delinquente come uno spillo. Come lo spillo che fissa i diversi esemplari di farfalle alla scatola del collezionista. Questo libro a me lascia questa immagine: la storia fotografica del crimine è una macabra collezione di farfalle notturne.

La foto: Ritratto segnaletico di Frank Sinatra, 1938

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