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Quel ritratto ti somiglia

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Pubblico la mia prefazione al libro Fac²e di Roberto Rossi, perché penso sia una riflessione sul ritratto che va oltre il lavoro di un singolo autore.

Quel che sembra creazione è l’atto di dare forma a ciò che si è ricevuto.
John Berger, Sacche di resistenza

Rossi1Vi imbatterete, sfogliando queste pagine, in un mistero della fotografia. La transustanziazione del ritrattato nel ritrattante. Voglio dire che tutti questi ritratti, nessuno escluso, somigliano a Roberto Rossi che li ha fatti.

Sì si va bene, se volete è un’iperbole. Roberto non è un bambino, non è una bella ragazza, non è uno spiritoso concorrente del Festival dei Brutti di Piobbico. Ma prima di dire che non siete d’accordo, dovete conoscere Roberto. Io non conosco quasi nessuna delle persone qui presenti. Ma conosco lui. E in ciascuna di quelle persone lui c’è.

Ma quel che più conta, è che la sua presenza non annulla la loro. E questo, vedete, non è scontato. Perché un ritratto è un campo di battaglia. Vabbe’, smilitarizziamo: è un campo da gioco. Non è un semplice incontro, è un confronto. Vogliamo dirlo? Un conflitto, anche se a questa parola bisogna dare il suo significato migliore, quello dialettico, dove alla fine il prodotto è superiore alla somma dei fattori.

Devo proprio ricordare il mantra da citazionario di Roland Barthes? “Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”. Sembra tutto un gioco di maschere, non vi pare?

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© Roberto Rossi

Da un campo di battaglia, o da un campo da gioco, ci si aspetta che escano un vincitore e uno sconfitto. I pareggi sono contemplati, ma deludono. Per Jean Baudrillard, una seduta di ritratto è un duello mortale. Meno cruento, Henri Cartier-Bresson parla del “silenzio interiore di una vittima consenziente”. Consenziente, ma vittima.

Sembra inteso che sia un gioco dispari, asimmetrico. La parte forte sarebbe quella che tiene la fotocamera (o il pennello) per il manico. L’essere umano che ha davanti, dicono i pensatori dell’arte, diventa quasi sempre fra le sue mani una materia plasmabile a piacere. Dove l’artista, spesso, mette molto più del proprio che dell’altro.

“Ogni ritratto dipinto con emozione è il ritratto dell’artista, non del modello”, dice un personaggio di Oscar Wilde a proposito del malefico Ritratto di Dorian Gray. Anche Benedetto Croce era d’accordo, quasi alla lettera: “L’artista ritrae sempre il proprio sentimento e non mai il modello”.

Come se tra fotografo e modello ci fosse non solo una lente, ma un vetro non troppo trasparente, che riflette e confonde il viso del primo con quello del secondo. Fino a farlo scomparire. Davvero è così?

Torno a sfogliare queste pagine e non mi accontento di questa interpretazione prepotente. Queste persone somigliano a Roberto Rossi, ma somigliare non è sostituire, non è rimpiazzare. Cos’è invece? Be’, creso dia mettere qualcosa in mezzo. Inframezzare. Il ritratto è una mediazione. Nello spazio fra ritraente e ritrattato si insinua qualcosa, un certo non so che. Un filtro double face.

Un’interfaccia! Ecco la parola.

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© Roberto Rossi

Mi sono fatto spiegare (sono un po’ tonto a volte) il significato di quel piccolo numero 2 sulla copertina. È una potenza, in senso matematico: eleva al quadrato la C di face – facendola diventare facce. Inglese e italiano. Con slittamento: dal singolare al plurale. Diciamo, da uno a due. Double face.

Allora diciamo che un buon ritratto è un raddoppio, attraverso un’interfaccia – la fotocamera. Che ha un vetro dalla parte del fotografo (il mirino, o il display) e uno dalla parte del soggetto (la lente dell’obiettivo). In quel percorso oscuro e inaccessibile tutto dentro la black box della fotocamera, avviene l’incontro.

Poi ci torno, ma sarà ora che dica qualcosa sulle fotografie di Roberto, qualcosa per collocarle nello spazio e nel tempo. Hanno una origine curiosa.

Roberto Rossi, lo leggerete anche in biografia, comincia a fotografare quasi da bambino. E a quindici anni di età fonda un circolo fotografico. Quello dell’Avis di Bibbiena, la sua città, che esiste ancora oggi, 42 anni dopo, ed è pieno di ragazzi come era lui (come è ancora lui) che trovano nella fotografia l’entusiasmo di una relazione col mondo (che è poi la vera ragione di esistenza della fotografia). Senza di lui e di loro, quel piccolo gioiello che è il Cifa di Bibbiena, il carcere che libera lo sguardo, non sarebbe stato possibile.

Ma dicevo, la passione viene prima e il mestiere dopo: Rossi ha fatto della fotografia una professione, fin dalla metà degli anni Ottanta. Un fotografo al servizio del territorio e delle attività produttive, direi con linguaggio da assessorato. Insomma, fotografava soprattutto cose, oggetti. Per le imprese.

Poi si rifaceva. Roberto ama e conosce la fotografia, la sua storia, la sua cultura. Negli after hours, per compensare forse, fotografava solo persone. Anzi, faceva ritratti, che non è la stessa cosa: un ritratto è una fotografia di una persona che sa di essere fotografata.

Quelle fotografate da Roberto lo sanno tutti, e lo fanno vedere. Quella relazione, quell’interfaccia, quell’inframezzo tra fotografo e modello lo si può quasi toccare con mano.

Ed è così che poi ci si somiglia. Oh, ecco quel che volevo dire. Come nel simbolo dello Yin Yang, bianco e nero (i colori delle foto di Roberto – con tutti i grigi di mezzo) si rincorrono in un vortice e depositano ciascuno un seme nel cuore dell’altro. La somiglianza è scambio tra due persone uniche, per questo la somiglianza non è mai generica: nessuna somiglianza somiglia all’altra.

Per alcuni anni, otto mi pare, Roberto ha collezionato ritratti e li ha pubblicati, una volta all’anno, in un’agenda, un gadget per amici e clienti della sua azienda di comunicazione. Ogni anno un genere, un filo rosso: bambini dell’asilo (di suo figlio), modelle, i “brutti”… o uno stile, close-up, ritratto con oggetti…

Quegli otto libri-non libri, sdrammatizzati dal loro utilizzo pratico e quotidiano (scarabocchiati, maltrattarti infine forse – spero di no – buttati), anche quelli somigliano a Roberto, il fotografo meno presuntuoso che abbia mai conosciuto.

Sono felice che gli sia venuta voglia di recuperare quei ritratti e renderli un po’ meno effimeri. Di presentarli per presentarsi, magari, alle migliaia di soci della Fiaf di cui, con merito, è diventato presidente nazionale. Oppure solo agli amici che lo hanno conosciuto finora colo come sapiente instancabile organizzatore di mostre eventi spazi fotografici.

Il suo primo libro di fotografia. “Anche l’ultimo”, mi dice con un sorriso che gli somiglia. Io spero che non sia l’ultimo.


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