Chi sarò, mamma? Sarò bella, sarò ricca?, cantava Doris Day. La risposta elusiva della mamma è uno dei ritornelli più celebri della musica leggera.
Su una bancarella trovo e compro subito la prima edizione di un libro di Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me. Esce nel 1931, quando il geniale poligrafo di Luzzara ha solo ventinove anni: un po' presto per un'autobiografia, non trovate?
Infatti è una specie di digressione fantastica sull'Io, un viaggio umoristico e surreale che passa perfino per l'Aldilà.
Ma si apre con un exergo in corsivo, sotto il titolo "Ritratto dell'autore". Lo potete vedere nella fotografia qui sopra, ma per comodità ve lo trascrivo:
Sul tavolo da lavoro ho pochi oggetti: il calamaio, la penna, alcuni fogli di carta, la mia fotografia. Che fronte spaziosa! Cosa mai diventerà questo bel giovane? Ministro, re? Guardate il taglio severo della bocca, guardate gli occhi. Oh, quegli occhi pensosi che mi fissano. Talvolta provo una viva soggezione e dico: sono proprio io? Mi dò un bacio sulle mani pensando che sono proprio io quel giovane, e mi rimetto a lavorare con lena per essere degno di lui.
Zavattini ci invita a guardare (ma non ce la mostra) quella foto di lui come una promessa dell'adulto che sarà (e che non è ancora del tutto, nel momento in cui si guarda).
Ma qualcuno sembra aver voluto colmare la lacuna. In questa copia orfana che ho comprato, nella pagina dirimpetto, c'e un disegno a penna. È l'illustrazione meticolosa di quelle righe.
Ci mostra un uomo seduto a una scrivania sulla quale sono posati calamaio, penna, fogli, e un ritratto in cornice che non vediamo. Vediamo però il volto pensoso dell'uomo (la guancia appoggiata alla mano, geroglifico del pensare).
No, non è un disegno stampato, ne sono quasi certo. Il colore del tratto è seppia, diverso dall'inchiostro da stampa con cui, nella pagina ancora precedente, è riprodotto un "disegno dell'autore" esplicitamente indicato come tale.
Del resto, in altre pagine del libro i disegni della stessa penna e della stessa buona mano ritornano, smarginando la gabbia tipografica.
Qualcuno ha illustrato manualmente il suo libro, ora mio. Chi? Ho un indizio, anzi qualcosa di più. Il proprietario ha firmato due volte la sua copia, in copertina e sulla prima pagina bianca.
"Dott Sante Ferrari". È il nome di un filosofo positivista padovano, scomparso nel 1939. Quando uscì il libro di Zavattini aveva 78 anni. Potrebbe essere lui? Mi piace pensarlo.
Se poi fu lui anche l'autore del disegno, dobbiamo pensare a un anziano intellettuale che riflette su un giovane intellettuale che riflette sulle promesse del proprio ritratto. Vediamo l'immagine incorniciata di un uomo che vede un'immagine incorniciata (che noi non vediamo). Che bella giostra.
Come si fa a non pensare alla più celebre fotografia negata del pensiero fotografico? La fotografia della madre di Roland Barthes, ancora bambina, nel giardino d'inverno, scoperta dal figlio fra le vecchie carte dopo la sua scomparsa, motore e culmine della sua meditazione sulla fotografia, nel suo La camera chiara.
Fu proprio leggendo quelle pagine, colpito dal rifiuto di mostrare quella fotografia affermativamente tanto importante, che Leonardo Sciascia elaborò il suo concetto di entelechia come profonda essenza e verità di una biografia, disvelata dal ritratto fotografico.
Nel testo (fondamentale) che apre il volume Ignoto a me stesso, dove Sciascia propone la sua scelta di ritratti di grandi scrittori, spiega così il signidicato di entelechia:
Un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente.
Sciascia racconta di avere scoperto solo tardi da dove gli venisse quel concetto: da Goethe, per le vie traverse di altri scrittori (Hoffmanstahl, Heimann).
In ogni caso, la folgorazione di Sciascia sta nell'averlo applicato alla fotografia. Posso spiegarlo, semplificando, così: il ritratto di una persona proietta retroattivamente il suo carattere su tutta la sua vita precedente. Noi siamo destinati a diventare quello che il nostro ritratto un giorno dirà di noi agli altri.
Ne ebbe lui stesso la potente dimostrazione guardando le fotografie che a Pierpaolo Pasolini aveva fatto Dino Pedriali pochi giorni prima del suo assassinio.
Ma il viceversa, vale lo stesso? Quel che saremo da adulti, da vecchi magari (Sante Ferrari) è già contenuto nel ritratto di quando non lo siamo ancora (Cesare Zavattini)?
Credo se lo sia chiesto anche una grande poetessa contemporanea, Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura.
In una poesia che prende le mosse proprio dall'osservazione di un ritratto precoce, il ritratto del futuro, il ritratto di un bambino.
Vi mostro quel ritratto e vi trascrivo i primi versi.
E chi è questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio del signor Hitler!
diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell'opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi,
e gli occhietti, il nasino?
Di chi il pancino pieno di latte,
ancora non si sa:
d'un tipografo, d'un mercante, d'un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in ufficio,
alle nozze magari con la figlia del sindaco?
Se i ritratti di Hitler da Führer, che so, quelli fatti dal suo fedele adulatore propagandista Heinrich Hoffman, sono il culmine e la sorgente dell'entelechia di tutta la sua vita, possiamo anche dire che nella prima fotografia di quel "bebè, angioletto, tesoruccio, piccolo raggio" è già inscritto il destino sanguinario di Hitler?
Qual è davvero la dialettica fra la persona che verrà e il ritratto che si lascia alle spalle? Davvero, guardando un nostro vecchio ritratto, ci sentiamo obbligati, come Zavattini, a non tradirne le premesse e le promesse? Hitler avrà magari guardato quella sua fotografia, magari nel bunker di Berlino? Cosa ne avrà pensato? Cosa le avrà detto?
Un ritratto può essere una promessa, ma anche una gabbia claustrofobica. Un fantasma che ci ammonisce. Un futuro anteriore che ci rimprovera. O che preferiamo ignorare, negare, nascondere. Guardiamo davvero volentieri i nostri ritratti passati?
Chissà che nella condizione sempre più effimera dei ritratti contemporanei, i ritratti fotocellulari, i selfie, destinati a perdersi al primo smartphone fracassato, oppure per semplice logoramento delle memorie magnetiche, o per obsolescenza tecnologica, chissà se questo destino perituro non sia l'inconsapevole salvifica conseguenza di un nostro disagio di fronte alle promesse-richieste dei volti che ci siamo lasciati dietro come una scia, e che ci guardano a volte in modo insopportabilmente inquisitore.
La mamma di Doris Day forse non aveva tutti i torti. Que sera sera.