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Ma Narciso non si fa il selfie

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NarcisoMa quale Narciso. A Narciso non interessano i selfie. Il selfie è solo un pittogramma. Come le emoji.

Lo so che tutti dicono così, che il selfie è l'apoteosi del narcisismo. Ma questa è la spiegazione più naturale, scontata e in fondo banale dell'esplosione della moda dell'autoritratto a braccio teso.

Non dico che sia una spiegazione del tutto sbagliata. Una quota di vanità, per fotografarci da soli, è indispensabile. Dobbiamo provare piacere in quel gesto, per produrre così spesso l'immagine di noi stessi.

Le foto a braccio teso, però, erano possibili anche prima del selfie fotocellulare, che come molte altre mode virali che ci sembrano nate oggi, ha i suoi precedenti. Ci si autofotografava con le macchinette tascabili. Gli autoscatti esistevano. Gli album di famiglia si facevano vedere a tutti gli ospiti, e chi c'era in quegli album se non noi? Una quota di narcisismo è sempre esistita in qualsiasi fotografia di noi stessi che facessimo vedere agli altri.

E allora, può essere la vanità l'unica spiegazione della novità delle neofoto retroverse? No, direi di no. Ce ne sono mille altre. I selfie, ad esempio, ci sembrano così invadenti soprattutto perché ci raggiungono più spesso delle foto dell'era pre-Web, perché i nostri amici ce ne riempiono le bacheche dei social. Senza i social, ne vedremmo una quota minima: praticamente quanti ne avremmo visti negli album di famiglia dell'era analogica.

È stata la condivisione, dunque, a fare la differenza nel fenomeno selfie. Ma allora, se questo è vero, scusate, il mito di Narciso qui non c'entra un bel nulla.

Che cosa fa infatti il Narcisio del mito (in quasi tutte le versioni letterarie, greche e latine)? Guarda la sua immagine riflessa nello specchio dell'acqua, e fin qui col selfie ci siamo. La fotocamera retroversa dello smartphone può essere come lo stagno del racconto.

Poi la scambia per il bellissimo volto di un altro, e già qui ci siamo molto meno (sappiamo benissimo che quella faccia lì nel display è la nostra), ma volendo si può dire che il selfie è un'alienazione dell'Io, e ci sta.

Ma alla fine Narciso si perde dentro la propria immagine, ci si tuffa dentro, fino a morirne. Non ne esce più. Per godere del proprio volto trascura le bellezze delle fanciulle in carne ed ossa che lo bramano. E dunque: il rapporto fra Narciso e la sua immagine è egoistico, geloso, esclusivo. Non condivide quella immagine con nessuno. Nessun altro, infatti, la vedrà mai, tranne lui.

E qui proprio non ci siamo, perché il selfie al contrario esiste solo per essere condiviso, caricato immediatamente in Rete, scambiato, disseminato al vento del Web. Aspettando poi i like di ritorno. Narciso non aspettava like. Lo avrebbero distratto.

Abbiamo bisogno di altre spiegazioni, per 'sto selfie. E io, se permettete, ne avanzo timidamente una. Anche questa senza pretese di assolutezza e unicità. Ma spero la troviate convincente.

Emoj1Emoj3L'ho già detta: i selfie sono come gli emoji. O emoticons, o se volete le faccine. Cosa sono le faccine? Pittogrammi, segni non verbali che però funzionano come parole nel dialogo telematico.

Servono ad aggiungere, o a restituire, alla comunicazione a distanza quelle inflessioni che in una chiacchierata di persona sarebbero affidate alle espressioni del volto, alle smorfie, ai gesti.

Servono insomma a evitare equivoci, quando il tono ironico delle nostre parole scritte, che sarebbe evidente dalle nostre espressioni se fossero dette vis-à-vis, rischia di essere frainteso. Per esempio, se qui scrivo "gli emoji sono una delle conquiste capitali dell'umanità contemporanea ;-) " voi capite che stavo volutemente esagerando, perché la mia "faccina" vi strizza l'occhio.

Le emoji, insomma, sono utensili retorici. E sono anche piccole confessioni di insufficienza delle nostre capacità scrittorie: ci rendiamo conto che non riusciamo a rendere un tono, un sottinteso, con le nostre sole parole (cosa che invece i grandi scrittori sanno fare) e abbiamo bisogno di segni speciali, non verbali.

Ma una chiacchierata fra amici non è obbligata a somigliare alla Recherche di Proust, no? Se lo fosse, sarebbe ridicola. E allora, ben vengano le faccine in questa cosa antropologicamente nuova che è la conversazione a distanza. Sono divertenti. Non fanno male a nessuno. Sui social le uso anche io che, per contratto, dovrei essere in grado di far capire le intonazioni e le sfumature del mio discorso usando le sole parole e al massimo qualche punto esclamativo.

E i selfie? Fanno più o meno la stessa cosa. In modo più personalizzato. Individualizzato. All'interno di quella conversazione ormai continua, parallela alla nostra vita, che è la nostra attività sui social network, i selfie sono "parole visive" che introducono quegli accenti emotivi, quei toni, che con le parole non riusciamo a comunicare, solo che in più lo fanno con la nostra faccia.

E non essendo disegnini standard, sono più convincenti e personali. Se ti mando un selfie ridente, non vuole dire solo che ti sto scrivendo con animo divertito, ma che lo sto facendo proprio io, qui ed ora.

Guardatele, le facce dei selfie: non sembrano imitare le faccine delle emoji? Le stesse boccucce a paperina, le stesse linguacce, i sorrisetti sognanti, i gesti con le mani... Nulla che non troviate nella tastiera touch del vostro smartphone sotto forma di iconcina.

Di narcisistico, in questo, c'è poco o nulla: non più di quel che non ci sia quando due persone chiacchierano sedute su una panchina, ridendo e guardandosi e alternando espressioni del viso. C'è invece molto di relazionale, di aperto agli altri.

Stiamo assistendo a un tentativo corale, di massa, un po' ingenuo ma autentico, di elaborare nuovi vocabolari accessori, non verbali, che prima non esistevano, per una comunicazione che si svolge in luoghi che prima non esistevano, con modalità di relazione che prima non esistevano.

Di vecchio, invece, c'è l'incapacità di alcuni critici, deprecatori del tempo presente, che non vogliono o non riescono ad andare oltre il come delle nuove relazioni tecnologicamente assistite, per provare, come sarebbe doveroso, a chiedersi il perché - e a spiegarcelo.

Aspettiamo con impazienza semiologi del tempo della condivisione.

 

 

 


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